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Psicologia nei media

Quand’è che abbiamo vietato il gioco?

Quand’è che abbiamo vietato il gioco?

Elisabetta Gallotta

Io questa cosa non l’ho sentita durante la conferenza stampa delle 18, quella che tutti aspettiamo in trepidante attesa delle buone notizie: “meno morti, più guariti, meno contagiati, il covid-19 scomparso improvvisamente”. Magari.

Allora deve averla detta Conte. Quando ci ha comunicato che si può correre solo intorno al palazzo avrà detto pure che non si può giocare. Eppure ho ascoltato tutti i discorsi di Conte e anche quello di Mattarella; e ho visto pure il discorso della Regina d’Inghilterra e anche quello del Papa. Ma io questa cosa non l’ho sentita.

Si, non l’ho sentita. È troppo specifica. Se l’avessi sentita me ne sarei certamente ricordata, non mi sarebbe sfuggita. Se avessero detto: “non si possono cambiare le lenzuola il giovedì” (spiegando che il connubio tra l’assunzione di gnocchi, che da noi avviene spesso il giovedì, e le particelle rilasciate nell’aria mentre togliamo le lenzuola usate dal materasso rende il Coronavirus ancora più letale) me lo ricorderei. Me lo ricorderei perché spesso mangiamo gnocchi il giovedì e le lenzuola, be’ quelle le cambio quando mi va, senza una programmazione. Ma avrei certamente avuto paura di sbagliare e, sono sicura, avrei messo un cartello sull’anta dell’armadio con scritto: “ricorda di non cambiare le lenzuola il giovedì!”. Per queste cose sono precisa e i cartelli mi aiutano tanto.

Quindi non l’hanno detta perché io non la ricordo e cartelli in casa non ce ne sono.

E allora, come è potuto succedere che sono stata aggredita verbalmente da un uomo in divisa per aver lanciato la palla al mio cane?

Quand’è che siamo passati dal “facciamo quello che c’è da fare per impedire al virus di contagiare le persone”, a “fai quello che dico io e basta”?

Mentre ero sul divano, a sorseggiare la mia mezza pinta ghiacciata, deve essermi sfuggito qualcosa e forse non solo a me.

I comportamenti vietati sono quelli che permettono al virus di propagarsi perché mettono le persone vicine, troppo vicine.

Per questo non possiamo abbracciare i nostri anziani genitori e i nostri nipoti; e non possiamo conversare con gli amici al tavolo di un bar, scaldati dal sole primaverile. Non possiamo affollare i parchi perché finiremmo con lo stare troppo vicini.

Quindi sono tante le cose che non possiamo fare. E ha senso non farle perché abbiamo bisogno di interrompere la propagazione del virus.  Ma lanciare la palla al mio labrador mentre attraverso il prato sotto casa mia, non rientra tra queste. Nessun’altra persona era presente. Né in mia compagnia né per proprio conto.

Qual è il senso allora?

È dettato solo dall’arrogante stupidità di un uomo frustrato e impreparato al difficile compito di aiutare la cittadinanza a rispettare le indicazioni?

Oppure è qualcos’altro?

Quando abbiamo dato mandato ai nostri governanti di vietarci il gioco per proteggerci? Quando gli abbiamo chiesto di multare un anziano perché sta seduto da solo su una panchina al sole per mezz’ora? Quando abbiamo stabilito che il cane può camminare e cagare sulla strada, ma non può passare sul prato e tanto meno inseguire una pallina? Quando ci siamo trasformati in delatori? Quando abbiamo cominciato a fotografare le persone e a denunciare su Fb la loro presenza sui prati?

Una cosa è certa, abbiamo smarrito il senso ultimo di certe restrizioni e il senso di appartenenza ad una comunità. Forse far parte di quel “mezzo mondo” letterale che sta chiuso in casa ci ha fatto scordare chi siamo e che cosa stiamo facendo.

Ci sentiamo solidali con i newyorchesi e con gli ecuadoregni quando vediamo i cadaveri lasciati in strada e ci alleniamo, dai nostri balconi, dai nostri divani ad essere il peggio o il meglio di quello che eravamo prima della quarantena. Perché questo è. Pochi di noi avranno la capacità e la saggezza di diventare migliori ed è un gran peccato perché allora sarà stata un’occasione sprecata.

In questi giorni vediamo tanti comportamenti lodevoli, gesti di generosità e autentica attenzione verso il prossimo. Ma anche tanta cattiveria, meschinità e aggressività. Mi viene il sospetto che questa pandemia con la relativa quarantena non sia altro che un microscopio che ingrandisce e rende palese ciò che è sempre stato presente sul vetrino. Gli autenticamente gentili continueranno ad esserlo e così i maligni e i frustrati continueranno a sfogare sul prossimo le proprie meschinità. Chi rubava prima, continua a farlo; chi approfittava della disperazione delle persone per lucrare continuerà; chi amministra senza essere competente lo farà ancora e cosi gli esperti di tutto un po’ continueranno a specializzarsi nella notte sulle discipline in voga. È così? E soprattutto, vogliamo che sia così?

Guardando i servizi giornalistici da Wuhan mi colpì molto una scena in cui una donna veniva portata via a forza dalla propria casa da uomini bardati con le tute bianche. La donna era tenacemente aggrappata allo stipite della porta e gridava di non voler lasciare la propria casa mentre gli uomini tiravano dall’altra parte. Ricordo di aver pensato: “questo, qui da noi non può succedere”. Stamattina, rientrata a casa livida di rabbia ho pensato: “come faremo a tornare indietro? Come cureremo queste ferite inflitte alla cittadinanza? Che succederà se questa quarantena durerà troppo a lungo? Come faremo a tornare umani se lasciamo che anziani siano aggrediti dalla finestra perché sono seduti su una panchina o se non permettiamo loro di saltare la fila al supermercato?”. Io proprio non lo so.

Ma forse possiamo cominciare da questo: affacciarci alla finestra e guardare cosa accade sotto i nostri occhi. Guardare e basta, facendo l’esercizio di astenerci dal giudizio.

Quando guardo dalla mia finestra vedo una fila di persone in attesa davanti al supermercato. Sono accasciate su grandi carrelli o strette forte alle proprie borse di plastica tenute ferme sul petto dalle braccia incrociate a formare uno scudo. Hanno mascherina e guanti e molte di loro berretti di lana e cappucci per nascondere la vergogna dei capelli bianchi. Ogni tanto, in mezzo alla lunga fila, osservando bene, si può vedere qualcuno che così, per un attimo, alza il viso al sole e chiude gli occhi.

Se il vigile che ho avuto la sfortuna di incontrare si fosse fermato ad osservare avrebbe visto solamente un labrador che insegue una pallina e una vecchia ragazza che gliela lancia mentre attraversano un prato. Invece quell’uomo è stato cieco e ha scaricato tutta la propria frustrazione, paura e incompetenza su di me.

Ho pensato di andare a fare una denuncia per questa aggressione vigliacca e immotivata, ma poi mi sono resa conto che, questo sì, sarebbe stato un comportamento rischioso per me, per la mia famiglia e per il personale di polizia. Così ho rinunciato. E ho scritto un cartello che ho attaccato sulla porta di casa: “non dimenticare la pallina e l’umanità”.

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